Sarò il tuo chirurgo

Andrea Odero: il tuo chirurgo vascolare

Quando indico ad un nuovo paziente la poltrona dinanzi alla mia scrivania comincia una storia inedita, che non è ancora stata scritta. Bisogna mettersi comodi. Ed ascoltare. Nessuna diagnosi è pura routine. Magari ho già sul tavolo i riscontri degli esami diagnostici (ad esempio un EcoColorDoppler alle carotidi o una Angio-TAC dei tronchi sovraortici – TSA), ma, dopo venti anni di chirurgia, so che le sorprese non mancano mai. Non dare nulla per scontato, prepararsi a prevenire ogni imprevisto ed ecco che allora emerge la magia del mio lavoro, che è poi la magia con cui funziona il corpo umano. La domanda da cui nascono la scienza e la cura. Sarò il tuo chirurgo, non un chirurgo che opererà l’ennesima stenosi carotidea in un lunghissimo elenco dove nessuno è chiamato con il suo nome e con il suo cognome. Con la mia equipe ci prenderemo cura di te, oltre che del tuo problema.

C’è una parola un po’ criptica che sentirai in questa prima visita. Dobbiamo capire se la stenosi alla carotide è “emodinamicamente significativa” oppure no. A questo punto, rifaremo insieme un Doppler, valutando la morfologia della placca, il grado di stenosi, le misurazioni velocimetriche, i rapporti: tutto per capire se la stenosi è veramente emodinamicamente significativa. Dopo il capitolo iniziale, la storia entra nel vivo. Devo sapere a che punto siamo, che cosa è già successo. E che cosa potrebbe succedere.

È vero, “emodinamica” ci riporta indietro nel tempo, tra le colonne dell’antica Atene, eppure questo termine dice moltissime cose sulla chirurgia vascolare e sulle terapie oggi disponibili. La sua etimologia rimanda al greco antico: “emo” indica il sangue, mentre “dinamica” è la traslitterazione di “dynamis”, che vuol dire forzaspinta vitale, ma anche impulso e processo. La emodinamica per noi chirurghi (e per i nostri colleghi cardiologi) è tutto ciò che accade nel cuore e nella rete di vasi dell’organismo attraverso il viaggio del flusso sanguigno. Una persona viene descritta come “dinamica” quando si destreggia con entusiasmo nella vita di tutti i giorni, superando gli ostacoli con fantasia. Vale lo stesso per la emodinamica che funziona. Tutto scorre, potremmo dire, facendo eco al grande filosofo greco Eraclito del “PANTA REI”. La emodinamica, per noi chirurghi (e per i nostri colleghi cardiologi) è tutto ciò che accade nel cuore e nella rete di vasi dell’organismo. Ossia, la circolazione del sangue.

La stenosi è invece un restringimento del diametro di un vaso. Si dice che nessuno faccia caso ai propri organi, finché un dolore ne segnala la presenza dentro il nostro corpo. Il flusso sanguigno è una eccezione. In presenza di un restringimento alle carotidi non si hanno sintomi particolari, fino a quando la stenosi diventa sintomatica provocando un accidente (TIA o ictus).

Una placca che causa una stenosi è quindi un ostacolo che va ad interferire sulla emodinamica. Ma quando succede questo? Di solito parliamo di “placche non emodinamicamente significative” quando il restringimento del vaso è inferiore al 75% del lume. Diversamente, quando la stenosi progredisce oltre la soglia critica del 75% la stenosi diviene “emodinamicamente significativa”. Tradotto: nel caso della carotide è un grosso intoppo all’apporto di sangue al cervello od al distretto irrorato dall’arteria stenotica. Nel mio studio c’è sempre tempo per te e per i piccoli dettagli. Ri-verifico sempre personalmente con il Doppler prima e con la TAC poi se una stenosi ha raggiunto la piena significatività emodinamica. Tutto questo rientra in ciò che chiamiamo “misurazione morfologica della placca”: capire ogni cosa della placca con parametri oggettivi misurabili. Fa parte di queste procedure il calcolo delle velocimetrie Doppler: la misurazione matematica della velocità del flusso sanguigno.

Però facciamo attenzione. Ogni paziente è diverso dall’altro. Può anche capitare che sintomi riscontrati da un collega neurologo – offuscamento della vista, ad esempio, o impaccio motorio in conseguenza di uno stroke di minor impatto – portino da me persone che hanno una occlusione inferiore alla soglia standard del 70%. Infatti, in presenza di un sintomo neurologico, ma in assenza di altre cause emboligene, una stenosi carotidea, anche di poco superiore al 50%, diventa di mia pertinenza. Con indicazione chirurgica. 

Abbiamo tradotto in immagini la stenosi. Immaginiamo adesso come entrarci in contatto diretto. Ecco le due opzioni che avremo davanti. 

Posso operare in via tradizionale, ossia con una “tromboendoarteriectomia” (TEA). È la strada apparentemente più impegnativa, ma con i rischi neurologici minori ed una durata migliore nel tempo. In corso di TEA carotidea asporto chirurgicamente la placca ateriosclerotica, isolando il vaso dai tessuti circostanti: è la tecnica nota con il nome di “dissezione chirurgica”. Per poter aprire la carotide ho bisogno di fermare temporaneamente il sangue attraverso il “clampaggio” attraverso pinze emostatiche. Ma, attenzione, non perderemo mai di vista il cervello. Il cervello del paziente sarà infatti sempre sotto monitoraggio attraverso uno spettrometro (NIRS), che con un affidabilità del 99% ci informa della quantità di ossigenazione dei lobi cerebrali frontali, permettendomi di intervenire rapidamente con un bypass temporaneo, se fosse necessario.

Io ho anche un approccio chirurgico personale, messo a punto in decenni di sala operatoria. Attraverso una piccola incisione sull’arteria carotide asporto integralmente la placca, con una tecnica detta “a stampo (en block)”. In questo modo l’incisione è molto più corta (semieversione) e il rischio di frantumazione della placca crolla, riducendo anche il rischio di un ictus intra-operatorio. Ma ci sono anche altri vantaggi notevoli:  riduzione della lunghezza della sutura (e conseguente riduzione nel tempo di ristenosi causata dal filo di sutura), riduzione dei tempi operatori, nessuna applicazione di “patch” (materiale estraneo protesico). Questo grazie al fatto che la carotide interna non viene aperta nel suo punto più stretto, ma solo in prossimità del bulbo, il punto cioè in cui la carotide si divide in interna ed esterna. 

Con la “chirurgia aperta” asporto completamente la placca con l’ausilio di occhialini ingranditori specifici. Questo intervento dura circa 90 minuti.

La cicatrice chirurgica generalmente è di soli 5-8 cm. Al risveglio il paziente torna generalmente nella sua camera, dove lo attendono i parenti e rimane monitorato fino al mattino seguente, quando passo a salutarlo e a rimuovere il drenaggio chirurgico.

La seconda via è probabilmente quella di cui hai già sentito parlare: angioplastica stenting. 

Lo “stent” è ormai un dispositivo chirurgico medicale con una certa notorietà mediatica. Funziona così: raggiungiamo l’arteria per via endoarteriosa attraverso un piccolo foro a carico della arteria femorale comune (all’inguine). Quindi posizioniamo, in prossimità del restringimento in carotide, un cilindro metallico bio-compatibile che, aprendosi, restituisce al vaso un diametro congruo al passaggio del sangue. Schiacciando la placca contro le pareti dell’arteria senza però asportarla. Questo intervento solitamente lo riserviamo a chi ha dei rischi chirurgici elevati tali da non poter sopportare un intervento chirurgico tradizionale. 

Come sai visito ed opero questo tipo di patologia con la mia equipe presso la Columbus Clinic Center, dove le moderne sale operatorie e professionisti dell’assistenza mi aiutano a mantenere elevati gli standard assistenziali.

Infatti, dopo l’intervento open di TEA carotidea, il paziente rientra in camera con una piccola ferita al collo, un tubo di drenaggio: viene monitorato in tutto e per tutto con la telemetria. Per chi lo desidera è possibile garantire un infermiere personale che si prende cura di lui nella notte.

Se i parametri vitali si sono mantenuti stabili nel corso di questa prima notte e se non abbiamo segni di alterazioni cardiologiche il paziente può chiedere di essere dimesso in tutta sicurezza. Sarà a casa sua nelle prime ore del pomeriggio della prima giornata.

Rimango sempre in contatto con i miei pazienti operati anche quando sono a casa in modo da non farli sentire mai soli. Siamo a metà della nostra storia. Adesso comincia la parte più appassionante: la guarigione.

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